giovedì 25 ottobre 2012

I incontro sul Concilio - Da Giovanni XXIII a Paolo VI, perché un Concilio? Il Vaticano II e la sua eredità


 

Da Giovanni XXIII a Paolo VI, perché un Concilio?

Il Vaticano II e la sua eredità

Il Concilio: perché oggi occuparsi di un avvenimento di oltre 50 anni fa’?

Si potrebbe ritenere che il Concilio sia un episodio chiuso della storia della Chiesa, una specie di capitolo di un libro che è ormai andato avanti. A volte le immagini stesse del Concilio ci fanno vedere un mondo che non esiste più: il papa sulla sedia gestatoria, i flabellarii e i lunghi strascichi dei mantelli cardinalizi, i volti ieratici, l’uso del latino come lingua comune, ecc… Sembra un evento di un mondo morto e sepolto.

In realtà esistono numerosi motivi che ci invitano a non considerare il Concilio un capitolo chiuso della nostra storia.

Innanzitutto, è vero, esso ha ancora le forme e il volto di una Chiesa antica e oggi superata, ma questo volto è proprio quello che il Concilio ha cercato di rinnovare, rendendolo più giovane e meno arcigno, più essenziale e meno barocco, più amichevole e vicino alla vita degli uomini comuni. Allora capire in che modo, attraverso quali passaggi e quali decisioni tutto ciò è avvenuto è il modo migliore per non restare alla superficie del fenomeno di profondo aggiornamento che la Chiesa ha intrapreso a partire del Vaticano II e per non farne solo una questione di “moda” passeggera. Molto più che l’abbigliamento o le forme è cambiato tutto un mondo di idee, di modi di vivere e sentirsi cristiani, di vedere e giudicare il mondo e gli uomini, ma tutto ciò va capito in profondità perché divenga un patrimonio anche della nostra generazione e di quelle successive.

In secondo luogo i Concili nella storia della Chiesa sono stati eventi di portata epocale, che hanno condizionato profondamente la vita e il modo di credere dei cristiani in tutti i tempi. Essi sono paragonabili alla spina dorsale dello sterminato corpo della Chiesa, che su di essi poggia il peso bimillenario della sua storia e della vita attuale. Un peso enorme, ma che si muove in una articolazione complessa e ricca che il mondo di oggi richiede ancora con maggior urgenza. Allora conoscere e rendersi conto dell’impalcatura che sorregge tutte le membra del corpo ecclesiale ci aiuta a renderci conto delle fondamenta su cui poggia la vita di una comunità universale, come quella cattolica, di cui anche noi siamo parte.

Infine il Concilio è stato innanzitutto un evento in cui possiamo avvertire con potenza il soffio dello Spirito. Si è trattato di una primavera ricca di promesse e di buoni frutti spirituali e concreti, di cui noi, appena 50 anni dopo, godiamo con abbondanza: pensiamo al nostro rapporto con la Scrittura, alla liturgia rinnovata, al rapporto con il mondo, all’ecumenismo, ecc… Potremmo dire che non siamo che all’inizio di un processo lungo e ancora in buona parte poco esplorato. Ripercorrere il Concilio allora serve a immetterci in questa corrente fortemente animata dallo Spirito e vivere anche noi questa giovanile primavera spirituale, evitando così il rischio, sempre in agguato, di rinchiuderci in un clima di pessimismo o ripiegamento su di sé.

È quello che ha voluto esprimere nel suo testamento il beato Giovanni Paolo II, che si definiva un vescovo e un papa del Concilio:

“Stando sulla soglia del terzo millennio «in medio Ecclesiae», desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l'intera Chiesa — e soprattutto con l'intero episcopato — mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all'evento conciliare dal primo all'ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l'eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato.”

Questo mi sembra lo spirito giusto con cui oggi provare a capire e conoscere meglio il Concilio ecumenico Vaticano II, come qualcosa che ci riguarda e ci interroga, come comunità e, personalmente, come singoli credenti.

Sul Concilio sono state scritte biblioteche di libri e non basterebbe un anno intero di conferenze per approfondirne solo i principali aspetti. Stasera, senza pretendere di essere esaustivi, vogliamo entrare in contatto con questo Spirito di primavera conciliare delineando:

·      prima di tutto il quadro della Chiesa e del mondo in cui si colloca il Vaticano II;

·      poi descrivendo come si è svolto il Concilio e i suoi protagonisti principali;

·      infine provare a coglierne l’eredità e gli interrogativi che ancora oggi ci pone.

 

Che bisogno c’era di un Concilio?

Il primo annuncio di un progetto di Concilio avviene il 25 gennaio 1959 in un incontro di Giovanni XXIII con alcuni cardinali della Curia romana a S. Paolo fuori le mura. L’annuncio viene accolto con molta freddezza e qualche timore. Non se ne avvertiva la necessità, anzi sembrava un progetto avventato e foriero di possibili rischi. Il 18 luglio 1870 era stato proclamato il dogma dell’infallibilità del papa ex cathedra, cioè nelle sue proclamazioni di verità di fede, e questo si pensava avesse reso inutile il Concilio che, nei secoli passati, era servito proprio a ratificare solennemente e ufficialmente i dogmi di fede ritenuti vincolanti per tutti i cattolici. L’atteggiamento e lo spirito con cui tale annuncio fu accolto si può facilmente capire dal fatto, ad esempio, che l’Osservatore Romano, organo ufficiale della S. Sede che ha fra i suoi compiti istituzionali proprio quello di essere portavoce fedele delle parole del papa, il giorno successivo nemmeno riportò le parole con cui Giovanni XXIII ne aveva dato notizia:

“Pronunzio innanzi a voi certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un Concilio generale per la Chiesa universale”

Giovanni XXIII era stato eletto pochi mesi prima (il 28 ottobre 1958) come papa di transizione, anziano e umile era stato considerato come un uomo che avrebbe portato avanti l’ordinaria amministrazione della vita della Chiesa senza scossoni per poco tempo e senza grandi novità.

Primo elemento da sottolineare è il fatto che Giovanni XXIII concepisce e annuncia il Concilio quando ha l’età di quasi 80 anni, smentendo l’idea che ci si era fatti di lui. Di umilissime origini, proviene da una famiglia di poveri contadini del bergamasco, diviene prete e sperimenta a Bergamo, come segretario del vescovo, le durezze della vita operaia coinvolta in quegli anni in dure lotte sindacali. Per la prima volta la Chiesa sta rendendosi conto in quegli anni che la ricerca della giustizia la obbliga a non stare sempre dalla parte che tradizionalmente aveva preso, cioè quella delle classi nobili o benestanti, ma a prendere in più seria e partecipata considerazione le aspirazioni di giustizia e libertà delle classi più umili, rurali e operaie. È il tempo in cui si sviluppa una dottrina sociale cattolica che cerca di delineare un progetto di società più giusta. Poi don Angelo Roncalli diviene cappellano militare e condivide il dramma delle masse di poveri soldati mandati al macello sul fronte della I guerra mondiale. Intraprende la carriera diplomatica e lavora prima nel mondo difficile dell’Oriente (in Turchia) e poi a Parigi, subito dopo la II guerra mondiale. È un uomo dalla spiritualità profonda, di formazione tradizionale, incarna la figura del prete all’antica, ma ha la straordinaria capacità di entrare in comunicazione “simpatica” con i mondi e le persone con cui viene in contatto. Ha un vero e proprio culto dei rapporti e vive la fiducia che attraverso di essi si spossa intervenire sul corso della storia dei singoli e dei popoli. Una volta divenuto papa, Giovanni mantiene vivo il suo spiccato senso ottimistico della storia e la fiducia di poter vincere con la forza del bene le manifestazioni del male.

Ne è un esempio, fra i tanti, la decisione presa di ricevere la figlia e il genero di Krusciov in visita a Roma. Si era in piena guerra fredda, il mondo era spaccato in due fra il blocco sovietico e quello occidentale. Giovanni però avverte che la Chiesa non può schiacciarsi su posizioni filo- occidentali fino a confondersi con le posizioni politiche degli USA, i principali sostenitori del blocco anti-comunista. Sa che nell’Est Europa la Chiesa è ferocemente perseguitata, ma sa anche che le contrapposizioni muro contro muro non offrono possibilità di superamento delle impasse. Rischia e punta tutto sul rapporto personale, non fugge né si chiude a riccio. È un esempio di come intendeva il suo apporto con il mondo: pur essendo stato fortemente sconsigliato, riceve quegli emissari del capo del nemico numero uno della fede, il Partico Comunista sovietico, e gioca il suo colloquio su un’amabilità paterna, pur non nascondendo il dolore per la persecuzione della Chiesa.

La Chiesa che Giovanni XXIII ha ricevuto in eredità da Pio XII è fortemente caratterizzata da elementi di pessimismo. Su questi certamente influenzò anche la personalità di papa Pacelli, che in vecchiaia vive in un clima di cupa amarezza. In gioventù, da nunzio a Berlino aveva visto il sorgere e rafforzarsi del regime nazista, imperialista, razzista e anticristiano; poi a Roma come Segretario di Stato aveva fatto esperienza dell’accerchiamento della Chiesa stretta dall’aggressione dei regimi comunisti in Europa dell’Est, ma anche in Italia. Poi l’occupazione nazista di Roma lo minaccia personalmente e lo rende prigioniero in una città offesa e umiliata. È ancora recente e aperta la ferita della cosiddetta “questione romana” (risolta nel 1929 con i “Patti lateranensi”) con una Chiesa ridimensionata nella sua sovranità e autonomia ad un territorio minuscolo, la Città del Vaticano, nel quale il papa vive ancora come recluso, con rarissime uscite e pochi contatti con l’esterno. Anche al suo interno la Chiesa vive un momento di grande tensione: all’inizio del secolo alcuni tentativi di un nuovo approccio allo studio della Sacra Scrittura che tenga conto dei nuovi metodi scientifici di indagine storica e letteraria, approccio iniziato e sviluppato in ambiente protestante, vengono stroncati con durezza, con l’accusa di voler stravolgere la fede sottoponendola al vaglio della scienza. Si tratta della cosiddetta “crisi modernista”. Si crea per reazione un forte movimento di diffidenza verso le espressioni della cultura profana (storia, scienza, filologia, sociologia, psicologia, ecc…) che non possono essere applicate alle questioni legate alla vita di fede. Si crea una sorta di complesso di accerchiamento a cui la Chiesa reagisce con ripetute condanne, riaffermazioni dei principi immutabili e certi della fede, allontanamento e diffidenza verso le espressioni della cultura che non si richiamano espressamente alla dottrina cattolica e non si sottopongono al controllo della Chiesa. Nel 1864, ad esempio, era stato stilato il Sillabo, elenco di ottanta proposizioni condannate come errori, che spaziavano nei diversi campi della fede, della politica, della morale, ecc...

In questo clima Giovanni XXIII rappresenta una novità sconvolgente. La sua fede profonda e all’antica si fonde con il senso di curiosità e simpatia per le espressioni umane che caratterizzano il suo approccio con tutti gli interlocutori.

Egli così si esprime a questo proposito nel discorso di apertura del Concilio:

“Spesso infatti avviene … che ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.

 A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.

 Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa.”

 

Il sogno di papa Giovanni di un Concilio e la difficoltà a realizzarlo

Giovanni XXIII desidera convocare tutta a Chiesa del mondo per riflettere insieme sulla realtà presente e, innanzitutto, coglierne “i segni dei tempi”, espressione molto significativa che utilizza nella bolla di indizione del Concilio:

“Queste dolorose cause di ansietà si configurano alla nostra considerazione come un motivo per richiamare la necessità di vigilare e rendere ognuno cosciente dei suoi doveri. Sappiamo che la visione di questi mali deprime talmente gli animi di alcuni al punto che non scorgono altro che tenebre, dalle quali pensano che il mondo sia interamente avvolto. Noi invece amiamo riaffermare la Nostra incrollabile fiducia nel divin Salvatore del genere umano, che non ha affatto abbandonato i mortali da lui redenti. Anzi, seguendo gli ammonimenti di Cristo Signore che ci esorta ad interpretare "i segni dei tempi" (Mt 16,3), fra tanta tenebrosa caligine scorgiamo indizi non pochi che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità.”[1]

A partire da questi segni Giovanni vuole ripartire per ridare fiducia e speranza al mondo annunciando ad esso il Vangelo nel modo in cui esso lo possa ricevere e accogliere per riaprire una speranza e una prospettiva per il futuro dell’umanità intera:

“Noi, fin da quando abbiamo iniziato il supremo Pontificato … abbiamo reputato nostro impellente dovere di rivolgere il pensiero, riunendo le forze di tutti i Nostri figli, a fare in modo che la Chiesa si dimostrasse sempre più idonea a risolvere i problemi degli uomini contemporanei. Per questo motivo, come obbedendo ad una voce interiore e suggerita da una ispirazione venuta dall’alto, abbiamo giudicato essere ormai maturi i tempi per offrire alla Chiesa cattolica e a tutta la comunità umana un nuovo Concilio Ecumenico che continuasse la serie dei venti grandi Concili, che hanno ottimamente contribuito nel corso dei secoli all’incremento della grazia celeste negli animi dei fedeli e al progresso del cristianesimo.”

All’inizio dei lavori, preparati lungamente da commissioni di studio, sembrò prevalere il desiderio di limitare il ruolo del Concilio ad una rapida e acritica accettazione degli schemi di documenti precedentemente preparati dagli esponenti della Curia romana. In essi si era cercato di presentare una sintesi delle condanne delle dottrine da rifiutare e una riaffermazione dei principi sempre validi della tradizione. Si desiderava che il Concilio fosse una ratifica più autorevole di quanto già durante i pontificati immediatamente precedenti si era andato affermando in quanto a dottrine e condanne.

Dopo un primo periodo di disorientamento prevalse una linea diversa. I vescovi convenuti da tutto il mondo pretesero e ottennero di poter discutere ampiamente e liberamente i temi che ritenevano centrali per la vita della Chiesa universale, giungendo ad un rifiuto integrale degli schemi precedentemente elaborati e alla creazione di nuovi testi frutto di un ampio dibattito, espressione del contributo di tutti.

Questo orientamento rispondeva all’esigenza esposta fin dall’inizio da Giovanni XXIII:

“Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo.”[2]

 

La celebrazione del Concilio:

Il Concilio fu un evento di una eccezionalità storica. Di per sé esso è uno strumento di governo della Chiesa che riveste un ruolo di suprema importanza: è l’organo più autorevole esistente e le sue decisioni sono universalmente valide. Esso è convocato dal Papa e raccoglie tutti i vescovi. Al Vaticano II, ventesimo Concilio della bimillenaria storia della Chiesa, parteciparono per la prima volta anche uditori non cattolici (i delegati fraterni ortodossi e protestanti), laici anche donne, oltre a esperti teologi, fra i quali anche l’attuale papa Benedetto XVI, che allora era un giovane teologo. Per la prima volta convenivano a Roma vescovi da tutto il mondo. Erano oltre 2000, di nazioni e popoli precedentemente mai presenti in un Concilio. Era l’immagine concreta della realtà universale della Chiesa. Per i vescovi stessi fu un’esperienza sconvolgente. Per lo più abituati ad una dimensione locale, si trovavano proiettati in una dimensione realmente cattolica, a farne esperienza, a doversi misurare con la complessità e molteplicità delle culture e dei riti, delle lingue e delle sensibilità, uscendo dall’autoreferenzialità tipica di chi si muove in un mondo piccolo. Dovettero imparare a dialogare con modi di vedere la chiesa e il mondo molto diversi, a mettere in discussione i propri giudizi accettando di confrontarsi con realtà ed esperienze pastorali diversissime fra loro. Questo ha dato luogo a reazioni diverse e contrastanti, ma ormai la complessità e la molteplicità erano dimensioni entrate a far parte della dialettica interna della Chiesa in modo irreversibile. Le differenze sperimentate hanno fatto scoprire il modo per divenire complementari e non più conflittuali, non era più possibile pensare alla Chiesa ignorando l’altro.

Anche al mondo esterno la Chiesa ha mostrato un volto inedito. Per la prima volta si conoscevano realtà lontane e se ne è potuto apprezzare lo spessore cristiano e umano. Si sono riscoperte, ad esempio, le realtà assai poco note delle Chiese Orientali, che nel Concilio hanno giocato un ruolo decisivo, offrendo un contributo importante per la riforma liturgica, l’ecumenismo e i rapporti con le altre religioni. Per anni i giornali hanno parlato delle questioni dibattute nel Concilio rendendo più familiari, o almeno noti, temi di cui prima il grande pubblico ignorava perfino l’esistenza. L’immagine ha avuto un grande impatto, anche per l’uso della televisione, in tutti i paesi del mondo.

Il Concilio è durato tre anni (ottobre 1962-dicembre 1965), in quattro diverse fasi intercalate da intervalli durante i quali i vescovi tornavano nelle loro diocesi, per un totale di 168 assemblee di circa 1000 ore di lavoro complessive. Sono stati prodotti i seguenti documenti:

·      Quattro Costituzioni (Sacrosanctum Concilum sulla liturgia, Lumen Gentium sulla Chiesa, Dei Verbum sulla Rivelazione, Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo);

·      nove Decreti (sui mass media, sulle Chiese Orientali, sull’ecumenismo, sui vescovi, sui religiosi, sulla formazione sacerdotale, sui laici, sulle missioni, sui presbiteri);

·      tre Dichiarazioni (sull’educazione cristiana, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa)

·      alcuni Messaggi al mondo.

 

L’eredità del Concilio

È molto difficile, forse impossibile, fare un bilancio del Concilio. Come tutti i grandi eventi storici solo con il passare del tempo se ne colgono meglio le luci e le ombre, gli aspetti positivi e quelli negativi. Ma è anche impossibile giudicare con criteri puramente sociali o politici la portata di un evento che ha avuto principalmente una dimensione spirituale e di fede. In questo senso ne sono state fatte ricostruzioni e tirati giudizi molto diversi: pensiamo ad esempio al sorgere di movimenti integralisti che hanno fatto proprio del rifiuto del Concilio Vaticano II la loro bandiera identitaria, come nel caso del movimento ultraconservatore dei lefebvriani.

La celebrazione del Concilio è stata contrassegnata da un clima di entusiasmo e passione. Si è sognato molto, in senso positivo, si è sperimentata la forza della Chiesa che, quado è unita e coraggiosa, può superare anche gli ostacoli apparentemente più insormontabili e proiettare lo sguardo e il cuore molto lontano, guardando al futuro con fiducia e speranza. Si è sperimentata la forza della preghiera e della fede che anima la storia e la trasforma dal di dentro.

La prima grande eredità dunque è stata forse proprio questa: la vittoria sul pessimismo, introverso e autoreferenziale, per scoprire l’ottimismo dell’estroversione di una realtà che proprio perché si riscopre più umana e quindi più debole, ha più fiducia nell’affidarsi alla forza del Vangelo per combattere i mali del mondo e proporre la fede. Si è riscoperto il bisogno che i cristiani scendano in profondità nella loro esperienza di fede scoprendosi fragili e indifesi da strutture e corazze, ma, proprio per questo, testimoni molto più efficaci dell’annuncio dei salvezza del Signore. Prima, difronte al mondo, si era abituati a diffidare e condannare, a difendersi aggredendo, ora lo si conquista con la forza dell’amore, della simpatia e dell’amabilità.

Una seconda grande conquista è stata il superamento della falsa contrapposizione fra conservatori e progressisti. Ancora oggi si vive la tentazione di vivere questa logica nella Chiesa. Il Concilio ha dimostrato che il vero conservatore, colui cioè che vuole non perdere nulla dell’annuncio di salvezza del Vangelo e della tradizione, non può nascondere per paura il talento ricevuto ma deve spenderlo, rischiando di vivere nel mondo e per il mondo, confrontandosi con la novità e il cambiamento assunti come elementi positivi e di vitalità e non come pericoli da rifuggire. Non a caso il papa Paolo VI che condusse la seconda parte dello svolgimento del Concilio, dopo la morte di Giovanni XXIII, e il dopo Concilio parlava di “aggiornamento della Chiesa” come dell’atteggiamento positivo da adottare nei confronti delle novità del mondo moderno. D’altro canto il vero progressista o innovatore non è colui che segue le mode del mondo o insegue il consenso, ma colui che si àncora alla solida base della Scrittura e della tradizione della Chiesa per vivere con libertà la fantasia dell’amore che libera dalla paura e dalle chiusure a riccio. Insomma il Concilio ha rinnovato profondamente la Chiesa, ma dandole un volto più antico, che, paradossalmente, assomiglia di più a quello di Gesù e degli apostoli proprio perché si incarna nell’uomo e nella donna di oggi in ricerca di salvezza.

Infine forse l’elemento più decisivo recuperato dal Concilio è stato far rientrare la storia nella vita della Chiesa. Per troppo tempo infatti si era vissuti nell’illusione di poter fisare in un tempo e in una certa civiltà, come ad esempio quella medioevale, l’esempio di perfetta realizzazione della civiltà cristiana (un fenomeno che nel XIX secolo prese il nome di “cattolicesimo intransigente”, in contrapposizione con quello “liberale”). Questo aveva portato ad una idealizzazione di quel tempo e della sua forma di società, dei rapporti fra potere politico e religioso, delle espressioni devozionali, della filosofia, della teologia, della morale. Tutto il tempo successivo era visto come una progressiva decadenza. A parte il fatto che è tutto da dimostrare che il medioevo rappresenti un esempio di perfetta società cristiana e, più in generale, se una certa epoca possa essere mai assunta a modello di perfezione, di certo un tale presupposto portava a vivere con disprezzo e antipatia il progresso storico che proponeva nuovi modelli sociali, di comportamento e nuovi strumenti di pensiero e scientifici. Sono evidenti le conseguenze di un tale atteggiamento: arroccamento in un bastione difensivo, rifiuto della modernità, condanna e disprezzo per l’uomo contemporaneo, attaccamento quasi morboso a schemi anacronistici e superati, anche nel modo di pensare e di riflettere sul mondo e sulla fede.

Il Concilio ha spazzato via questi atteggiamenti, rimettendo al centro la dimensione storica della fede, vissuta prima da un popolo chiamato in una certa epoca storica e nei modi allora possibili, e della salvezza, annunciata da un Dio fattosi uomo e che quindi ha assunto la dimensione storica inseparabile dalla vita umana. Questo recupero della dimensione storica ha restituito alla Chiesa la possibilità di incidere profondamente nella realtà dei popoli e degli individui e di entrare in un dialogo proficuo con le civiltà e le culture, anche quelle lontane dalla fede, per annunciarvi il Vangelo.

Paolo VI si trovò di fronte il difficile compito di accompagnare la Chiesa a vivere l’eredità del Concilio, con esiti a volte straordinari e a volte problematici.

Questa però non è solo storia del passato. Anche noi ci troviamo di fronte tutte intere queste sfide, anche perché sono le sfide di come essere discepoli del Signore e testimoni del Vangelo all’uomo di oggi:

 

·      vincere il pessimismo autoreferenziale con l’ottimismo della fede vissuta nella libertà;

·      vincere una falsa ricerca di essere moderni e “accettati” o, al contrario, di giudicare sentendosi saccentemente distaccati e superiori;

·      porsi il problema della mediazione e trasmissione della fede nel contesto storico in cui viviamo, nei rapporti, nella cultura, nel modo di vivere e sentire dei nostri vicini, per passare dall’autoreferenzialità all’incontro.

Sono sfide epocali, sempre valide, anche per noi. Coglierne la portata e assumercene la responsabilità ci permette di vivere anche noi la primavera dello Spirito che il Concilio ecumenico Vaticano II ha inaugurato per la Chiesa del nostro tempo.



[1] Costituzione Apostolica Humanae Salutis.
[2] Discorso di Apertura del Concilio, 11 ottobre 1962.

Nessun commento:

Posta un commento